Quando il cuore raggiunge i 120 battiti, sullo schermo si accende un segnale rosso. «Sono troppi per una donna anziana che ormai si muove poco», spiega Giovanni Capobianco, primario di geriatria al Sant’Eugenio di Roma.

«Abbiamo subito chiamato la figlia. Se non avesse risposto, avremmo allertato l’assistenza domiciliare», aggiunge Paola Rossini, medico di un reparto che assiste 16 pazienti in un letto d’ospedale e altrettanti nel loro letto di casa. Lo studio da cui i due geriatri parlano ha uno schermo grande come una parete, con tanti valori di cuore e respiro: arrivano al Sant’Eugenio direttamente dai letti e dai divani di un gruppo di anziani fragili, monitorati con la telemedicina.

«L’abbiamo chiamato ospedale virtuale», spiega Giorgio Casati, il direttore generale della Asl Roma 2, una costola della capitale che da sola — tra le ville dell’Eur e i casermoni di Torpignattara — vale 1,4 milioni di abitanti, di cui 32mila fragili e 20mila affetti da demenza senile. «Per ora il servizio non costa nulla all’Azienda e ci permette di evitare parecchi ricoveri. Ma puntiamo a crescere, e lì le risorse ovviamente serviranno».

Il servizio Curare@casa è nato la scorsa estate, tra un’ondata di Covid e una di caldo, due condizioni che mettono gli anziani nel mirino. «Dal nostro reparto dimettiamo tanti pazienti che hanno superato la fase acuta — spiega Capobianco — ma hanno ancora bisogno di assistenza. Con la pandemia, poi, i fragili non si sono curati e le loro condizioni si sono aggravate. Ad alcuni consegniamo un apparecchio per misurare due volte al giorno battiti, pressione e saturazione del sangue. Li chiamiamo tutte le mattine, oltre a quando ovviamente si accende un allarme. Se c’è bisogno, mandiamo un’équipe dell’assistenza domiciliare che può fare anche flebo o trasfusioni».

 

Paola Rossini, geriatra di Curare@casa
Paola Rossini, geriatra di Curare@casa 

I primi risultati di Curare@casa vengono presentati giovedì in un convegno al Sant’Eugenio. «Per ora siamo una piccola oasi», spiega il primario. «Non siamo nemmeno i primi in Italia e dobbiamo ringraziare il supporto di Asl e Regione. Abbiamo però la convinzione che la nostra esperienza debba diventare la norma».

È uno degli insegnamenti della pandemia: meglio curarsi sul territorio che affollare gli ospedali o attendere ore nei pronto soccorso. «È anche uno degli obiettivi del Pnrr: arrivare al 10% dei malati al di sopra dei 65 anni seguiti in telemedicina», aggiunge Casati.

Soprattutto, però, è un desiderio di tanti anziani. «La soddisfazione più grande — racconta Rossini — è aver aiutato una donna malata di leucemia a evitare fino all’ultimo l’ospedale. Avrebbe dovuto correre al pronto soccorso ogni volta che i globuli rossi scendevano troppo, ed era spaventata. Invece siamo riusciti a far sì che eseguisse tutte le trasfusioni a casa. La sua gratitudine non la dimenticherò mai».

 

 

Il Sant’Eugenio, dopo la geriatria, ha avviato la telemedicina anche per alcuni letti virtuali di neurologia. «È come aprire un piccolo ospedale tutto nuovo», spiega Casati. «Per noi medici vuol dire uscire dalla comfort zone», aggiunge Capobianco, 63 anni di cui più della metà passati in una corsia di geriatria. «Siamo abituati a gestire un paziente in fase acuta che ha bisogno del ricovero. Integrare la nostra cultura di medici con le nuove tecnologie e l’organizzazione di un servizio a domicilio è una sfida anche per noi».

La pandemia è stata la pista di lancio. «Prima del Covid il nostro reparto, tra parenti e badanti, sembrava via del Corso. La compagnia è un’ottima medicina. Poi abbiamo chiuso tutto e ci siamo dovuti arrangiare con tablet e cellulari». Ora con gli stessi apparecchi il reparto sta tentando un nuovo salto in avanti. «Perché è inutile illudersi», prosegue il primario. «La vita di prima non tornerà più».

Ed è singolare solo in apparenza che lo scatto di reni venga da una disciplina che accompagna i suoi pazienti al tramonto della vita. «La geriatria in realtà ha molto da fare» è convinto Capobianco, che è anche presidente dell’Associazione Giano per la promozione della cultura dell’invecchiamento. «Ci sono gli anziani che stanno bene ma vengono ricoverati per una malattia. Loro, è bellissimo tirarli fuori. Ci sono i fragili, cui possiamo regalare ancora spazi di vita attiva. E poi ci troviamo di fronte a persone non autosufficienti o con demenze gravi. Lì dobbiamo togliere il dolore e aiutare a stare bene per quanto è possibile».

A chi crede che l’invecchiamento della società sia un costo e un peso, Capobianco risponde con un ricordo personale: «In ogni anziano vedo mio padre. In ogni anziana mia nonna, non so bene perché. Penso alla generazione dei miei genitori, quella che dopo la guerra ha costruito questo Paese, e non posso fare a meno di pensare che meritino tutta la nostra gratitudine. Assisterli nella vecchiaia oggi è il minimo che noi possiamo fare per loro».